IL POZZO DELLA VERGINE



LEGGENDA LONGOBARDA DI CAPRONNO



Il corno barbàrico suonò a raccolta dall’alto della bastita e l’eco ne ripetè il richiamo rauco e selvaggio per i colli e le castella.
Allora le porte della rocca di Capronno si spalan­carono e una torma di cavalieri Longobardi, precipitandosi fuori dalle mura a galoppo sfrenato, si riversò come torrente impetuoso pei declivi fioriti, dilagò ir­resistibile nella distesa delle praterie. Lampeggiavano armi e corazze al sole di primavera; sopra gli elmi e gli scudi si levava contro il cielo, irta di punte, la selva delle alabarde. Il tonfo del galoppo serrato Si smorzava sul molle tappeto dell’erbe; soltanto s’udi­va tinnire il ferro e l’acciaio delle armature.
La cavalcata sparve nel folto della boscaglia, riapparve al lago.
Sulle ghiaie della riva, con brusche impennate e giravolte improvvise, i guerrieri arrestarono di colpo lo slancio dei cavalli che, schiumanti e scalpitanti, si allinearono al limitare delle acque.
Allora Minulfo, duca di Novara, spinse nelle onde il suo destriero che nitrendo si piantò innanzi alla schiera irrequieta. Ritto in arcione, immobile, il duca fissava con gli occhi cerulei lo specchio del lago; dal fosco viso la barba cadeva bionda e fluente sulla corazza. In Capronno aveva tenuto il campo di maggio e ora, prima di far ritorno al suo palazzo nell’isola del piccolo lago d’Orta, invocava propizie alle gesta della sua gente, le divinità delle acque.
Pregò a lungo, poi, scostato con rapido gesto il manto ducale che tutto l’avvolgeva snudò la spada.
Tre volte la lama lucente s’immerse nel santo la­vacro dell’onde; tre volte alta nel pugno scintillò ter­sa e gocciolante al sole. E tutta la sponda echeggiò al triplice grido di guerra degli Arimanni che, dando di sprone ai cavalli, entraron nel lago. Le acque, agi­tate e sconvolte, si coprirono di spume e di spruzzi, sinchè la torma, con rapido volteggio, si gettò com­patta dietro al suo capo che, risalita la sponda, aveva lanciato il corsiero al galoppo, lungo la costiera.

* * *

Il sole nascente coronava già di luce la cresta fer­rigna del Campo dei Fiori, quando Servilia, salendo il monte oggi detto di San Quirico, giunse ad una breve radura, sotto la vetta lanciata a cono nella se­renità del cielo.
Si sentiva stanca e sedette sulla proda d’un fossatel­lo scavato dalle acque piovane.
Aveva lasciato la povera capanna, dove abitava col vecchio padre, che ancor era notte e la falce del­la luna rifletteva nel lago una trèmula striscia d’ar­gento; cammin facendo aveva veduto l’astro tramon­tare, impallidir le stelle, trovandosi spersa e impau­rita nell’oscurità del bosco. Per questo, al primo al­beggiare, aveva salutato la luce con tanta gioia nel cuore, quanta era nel canto degli uccelletti ridesti, che da ogni albero, da ogni ramo, da ogni frasca ora inneggiavano, garruli e canori, al nascere del giorno.
Il sole irradiò nello spazio, sfolgorò sulla foresta di pini silvestri che ammantava il cocuzzolo del mon­te, incendiò a valle la selva dei castagni. La radura, ondeggiante di felci, s’accese di splendore e sulle candide betulle le foglioline sfarfallarono alla brez­za, luccicanti come laminette d’oro.
Servilia fu subito in piedi: raccolse da terra il suo cestello e riprese il cammino. Andava agile e leg­gera, piena di grazia e di soavità, sorridendo alla na­tura circostante che pareva riflettere in quel dolce viso di fanciulla, la sua divina bellezza. Ombra di dolore non era in lei. Il risveglio luminoso del creato faceva vibrare l’anima esultante di giovinezza, can­cellando dalle sembianze leggiadre il triste segno del patimento. Tutto dimenticato per un istante: l’orrore dell’invasione barbàrica, la strage spaventosa, le ra­pine, le distruzioni, gl’incendi: la sua famiglia de­predata d’ogni avere, d’ogni ricchezza; la fuga col vecchio padre, il rifugio nel bosco, la fame...e ancòra e sempre, ad ogni momento, il terrore d’una sorpresa feroce, d’un massacro...
S’arrampicò come capretta per la ripida china, anelante di giungere all’eremitaggio del santo mona­co cristiano che, per sfuggire alla persecuzione degli Ariani, s’era rifugiato in quel luogo solitario. Là, nella pace e nel silenzio, egli stava costruendo pietra a pietra una chiesetta per i suoi fratelli di fede che, visitandolo sovente, avevano da lui consigli e aiuti.
La fanciulla portava in dono al buon vecchio un cestello d’ortaggi e di lattughe del suo orto, unica ric­chezza rimastale dopo la spoliazione. Lo trovò in­tento ad abbattere con gran fatica il tronco d’un pino, necessario per ultimare la travatura del tetto. I muri erano già tutti in piedi, e la chiesetta s’ergeva sul­l’angusto ripiano così snella e ardita che pareva so­spesa fra la vetta e il cielo. Torno torno i pini, ritti sull’orlo della china, le facevano corona, stretti l’un l’altro quasi a sottrarla agli sguardi e all’ira del nemico.
All’apparire di Servilia l’eremita lasciò il lavoro e tergendosi con la manica del saio il sudore dalla fronte, mosse a incontrarla: “Il Signore ti benedica, figlia”.
— E la pace sia con te — rispose la fanciulla e porse l’umile dono al sant’uomo che l’accettò com­mosso.
Parlarono a lungo delle persecuzioni, della fe­rocia degl’invasori, della tristezza della servitù.
— Abbia fede, creatura — diceva il vecchio — i tempi sono ormai maturi. In verità ti dico che ben presto si avvererà la profezia dell’Apostolo e più non vi sarà Greco nè Giudeo, nè uomo libero nè schiavo, nè maschio nè femmina, perchè tutti saremo uniti nel Signor Nostro Gesù Cristo. E così sia.
— Così sia! — sospirò Servilia.
Visitarono la chiesetta; ella si meravigliava com’egli avesse potuto in così breve tempo, senz'aiuto alcuno, condurre quasi a termine la fabbrica.
Il sant'uomo, scostando alcune frasche di un pi­no, scoprì alla vista le colline che, sull’opposta sponda del lago, correvano in catena. Ne indicò con la mano una di faccia: — Lassù v’è un mio dolce fra­tello e anch’egli costruisce una chiesa, nel nome del Santo Martire Salvatore. Orbene, appena giunto su questa cima, io m’accorsi di non aver meco, nella bisaccia, che un martello e mi sovvenne che la caz­zuola era rimasta al compagno. Come innalzare la chiesa? Come eseguire l’opere di muratura?
Invocato il Signore, egli era stato ispirato di lan­ciare con tutta forza, il martello, nello spazio. Oh, meraviglia! Saliva, saliva, descrivendo un’ampia pa­rabola nel cielo: l’aveva veduto luccicare un istante nel sole, divenire un punto nero sul celeste, sparire...
Che trepida attesa! ma dopo qualche minuto, ecco nell’aria un altro luccichio, un punto nero che ingrandiva a vista d’occhio, precipitava verso di lui, e, con un tonfo nell’erba, era venuto a cadere ai suoi piedi... la cazzuola! Così, scambiando ogni gior­no con suo fratello gli arnesi, da un monte all’altro, attraverso la distesa del lago, avevano potuto terminare entrambi il lavoro, per la gloria di Dio.
Molte altre cose mirabili raccontò il buon mona­co, sinchè Servilia, pensando inquieta al padre rimasto nella capanna, prese commiato. L’eremita la accompagnò per un tratto, e prima di separarsi da lei, salutandola con grande tenerezza, la volle benedire. Quando fu sola ella si diede a correre, scendendo la china boschiva. Lepri e caprioli in fuga al suo passaggio, scomparivano a gran salti nella selva.
Presto si trovò a’ piè del monte e, costeggiando il lago, giunse ai campi deserti e alle praterie cinte di siepi di nocciòli e ginepri, dove il vasto silenzio era cullato da un lieve frascheggiare alla brezza e da un sommesso mormorar d’onde alla sponda.
Camminava sul morbido tappeto dell’erbe, quan­do, di repente, sentì sopra la testa frullio d’ali; die­tro a lei un volo di passeri spauriti, s’era levato a volo. Si volse, si pose in ascolto: le parve di udire, sempre più vicino, un rimbombo d’un trotto di ca­valli. Col cuore che le batteva forte, si gettò a terra per nascondersi nel folto dell’erbe... troppo tardi!
Un cavaliere in armi sbucando dalla siepe dei nocciòli, aveva già scorto la fanciulla e lanciato il destriero galoppava verso di lei. Altri cavalieri ap­parvero dietro il primo, in un baleno ella si trovò circondata da ogni parte.
Erano Longobardi: ghignavano nei visi biechi, puntando gli occhi cupidi e torvi sulla preda.
— Caccia reale, oggi!
— Invece d’un leprotto riporteremo al castello questa rosa!
— Ancora non t’hanno tagliato la chioma per le nozze?  (1).
— Ci penseranno i Gasindi (2) che impazziscono d’amore per ogni femminetta!
— Toglieremo i monili alle nostre donne per darli a te, vedrai!
— Tremi, piccola romana? Forse che le nostre lunghe barbe ti fanno paura?
Ridevano, divertendosi ai frizzi ed alle beffe, e intanto stringevano, avanzando, il cerchio. Servilia atterrita si sentiva mancare.
Raccolse le sue ultime forze e col coraggio della disperazione tentò liberarsi dalla stretta, sgusciando tra due cavalli. Ma un bàrbaro che, indovinata la mossa, s’era chinato dall’arcione, la ghermì lesto al passaggio e cingendole col braccio muscoloso la vita, l’issò trionfalmente sulla groppa. Subito, tra urla di giubilo e risate di scherno, il drappello s’allontanò al galoppo e soltanto rimase nell’aria, ripetuto di lontano, un grido disperato di terrore e di morte.

* * *

Il tramonto sanguigno s’andava spegnendo all’o­rizzonte e già nelle tenebre s’accendevano sulle al­ture i fuochi dei bivacchi e sulle torri dei castelli le rosse luci da segnale. La foresta, addormentata nella tepida notte primaverile, svettava nera e immobile sul chiaro cielo notturno, punteggiato di stelle. Ma sotto i grandi alberi patriarcali, attorno a una capanna solitaria, un padre andava errando, chiaman­do a nome la sua creatura.
Dov’era, dov’era dunque Servilia, la diletta bim­ba, fiore del suo sangue, unica gioia che Dio gli avesse lasciato nella triste vita? Tutto il giorno l’aveva attesa e con quale ansia, con quale tormento! Nascon­dendosi dietro il tronco del melo, nell’orto, per coglierla di sorpresa, farle un poco di paura e prender­sela poi, trepida e ridente, nelle braccia; movendo al suo incontro pel sentiero che saliva dal lago e ch’ella era solita percorrere; spiando dietro l’uscio della ca­panna, attraverso una fessura, il suo ritorno; più tardi, a sera, abbandonato dinanzi alla tristezza del fo­colare spento, ed ora vagando nel buio, con lo stra­zio nel cuore, e un presentimento orribile di sciagura che gli sconvolgeva la mente.
La voce del vecchio si perdeva sotto la volta degli alberi e solo le lùgubri strida di qualche uccello not­turno facevano eco ai suoi appelli angosciati.
Rientrò alfine nella capanna e, spossato dall’inu­tile attesa, s’abbattè al suolo, lagrimando. Di colpo trasalì: gli era parso d’udire, al di fuori, calpestio di passi. Si rizzò a sedere, vide l’uscio aprirsi: pazzo di felicità, tendendo le braccia, gridò: — Servilia, figlia mia!
Nel riquadro della porta, sullo sfondo luminoso del bosco immerso nel pallore della luna sorgente, era apparsa l’ombra nera d’un monaco il vecchio riconobbe alla tonaca e al cappuccio l’eremita del monte.
— Tu qui?... e Servilia? dov’è Servilia?... dim­melo dunque! Era venuta da te: dove l’hai la­sciata?...
E s’avvinghiò alla tonaca del frate, stringendosi disperatamente alle sue ginocchia, quasi a strappar­gli una parola di sicura speranza.
Ma quello taceva; alfine, con voce malferma: — Venne e partì — potè balbettare — ma nel ritorno...
— Nel ritorno...?
— I Bàrbari l’hanno rapita.
D’un balzo il vecchio Romano fu in piedi; un tra­gico silenzio gravò come incubo per alcuni istanti, e parve eterno.
Poi il vecchio, scuotendosi: — Ne sei certo? — chiese.
— Iddio ha voluto ch’io lo sapessi per dartene av­viso, e sia lodato! — rispose il monaco, abbassan­do il capo sul petto.
— Lodato sia — ripetè il vecchio, e con voce ferma soggiunse: — Andrò alla rocca, mi presenterò allo Sculdascio (3), offrirò il guidrigildo (4) pel ri­scatto. Pregherò, piangerò, sin che me l’avranno re­stituita... Santo fratello, m’accompagni? Tu le vo­levi bene....
— Le vo­levo bene… — mormorò l’eremita e non potè proseguire.
— Dunque, vieni? — insistette dolcemente il vecchio.
Il sant’uomo gli aveva preso dolcemente le mani nelle sue, le stringeva con effusione, ma rimaneva immobile sen­za rispondere; alfine, non potendo più reggere: — Inutile, fratello — gridò con voce rotta dal pianto — inutile! Ella è già tra le schiere dei Santi, nella beatitudine del Paradiso! — e cadde in ginocchio sulla soglia, singhiozzando.
Attendeva un urlo, uno scoppio irrefrenabile di disperazione… nulla. Ancòra una volta il silenzio della notte incombeva tragico d’attorno.
Alzò il capo: il vecchio, eretto contro lo stipite della porta, pareva di sasso. Al chiarore lunare egli ne vide il viso angoloso farsi livido, stravolto, mi­naccioso, terribile. L’antica ferocia atàvica, ridesta dagli impulsi del cuore esacerbato, s’era scatenata in ogni fibra dell’essere, riflettendosi spasmodica sui lineamenti contratti e nel fulgore torvo dello sguardo.
L’eremita n’ebbe quasi paura; mormorò: — Fra­tello... — ma quegli era già scomparso nell’oscurità della capanna.
Ricomparve subito; la lama d’un coltello gli luc­cicava nella mano.
— Che vuoi fare? — gridò il frate parandoglisi dinanzi per sbarrargli la via.
— Vendicarla! — ghignò il Romano.
— Stolto, lascia quell’arma! A che ti servireb­be? Che credi di poter fare, tu? E’ questa la tua fe­de? così disperi della giustizia divina? Vieni, vieni dunque ch'io ti farò vedere com’Egli stermina gli iniqui e distrugge gli empi e fa ricadere sul capo dei carnefici il sangue dell’innocente! — e se lo trascinò dietro per la foresta sin dove gli alberi, diradan­dosi, lasciavano scorgere la vastità dell’orizzonte.
Giunti colà: — Guarda — gli disse — cosa ri­mane de’ tuoi nemici! Mia è la vendetta, ha detto il Signore.
La rocca di Capronno ardeva nella notte come un rogo gigantesco. Si scorgevano le fiamme levarsi altissime al disopra delle mura merlate, lanciarsi contro le torri, avvolgerle in cerchi di fuoco, mentre nembi di scintille, portate dal vento, piovevano sulla fore­sta circostante, incendiandola. Colonne globose di fu­mo denso e caliginoso, rosseggianti al bagliore, s’in­nalzavano nell’aria e salendo in neri vortici al cielo oscuravan le stelle.
Qualche disperato appello di corni risonava in lontananza.
— Hai tu veduto? — mormorò l'eremita.
Ma il vecchio pareva non udisse: muto, immo­bile come statua, teneva gli occhi fissi al rogo. Di col­po, lasciò il braccio del compagno lanciandosi di cor­sa, come pazzo, verso la tragica collina. Traversò prati, siepi, corsi d’acqua: giunse a piè dell’altura e senza far sosta si gettò pel bosco. Incespicava, cadeva, si rialzava, riprendeva la corsa furiosa, come se una forza sovrumana lo sorreggesse, lo spingesse avanti, sempre più avanti verso il vortice di fuoco. Sentiva ormai sul viso la vampa dell’incendio, vedeva i pini ardergli d’attorno come torcie; scomparendo in nu­vole di fumo acre, gli pareva di soffocare. E ancòra correva, correva sempre, scavalcando barriere di fiamme, passando tra lingue di fuoco che lo lambi­vano scottandogli le carni, sotto un diluvio di tizzoni e di cenere che gli cadeva intorno.
Si trovò davanti alla rocca: le mura squarciate ruinavano, le travature infocate cadevan dall’alto, con fracasso spaventoso. Per il portone spalancato, gli riuscì di penetrar nel cortile e si fermò al centro della voragine ardente: il riverbero rosso delle fiamme, lo faceva sembrare un dèmone vomitato dall’inferno.
Guardò attorno: un guerriero moribondo si ri­voltava nella polvere, imprecando e gemendo. Con un balzo felino gli fu sopra, l’inchiodò al suolo con un ginocchio sul petto, con due mani di ferro gli strinse la gola come in una morsa.
— Parla, cane maledetto, parla! Che n’avete fatto della mia creatura?
Quello lo guardò con occhi sbarrati dal terrore.
— Se non parli ti sgozzo come un montone! urlò il vecchio, e gli puntò il coltello alla gola.
— Lasciami... così non posso... mi uccidi rantolò il Longobardo.
Allentò la stretta.
— Voglio sapere cosa ne avete fatto della fanciulla da voi rapita!
L’Arimanno lo guardò con terrore, ma non potè sostenere lo sguardo del Romano, che pareva sguardo di belva.
Socchiuse gli occhi. Mormorando: — Si è uccisa.
— Tu menti cane! urlò il vecchio. — Voi, l’avete uccisa! Dimmi la verità o ti scanno!
Ma quegli scosse il capo: — E’ vero io l’ho veduta. Era la,rifugiata in quell’angolo: pregava il suo Dio, inginocchiata presso il pozzo. Il Duca, uscendo dal banchetto, la vide: la voleva... anche lo Sculdascio la voleva per sè... erano briachi di vino e d’a­more... Lo Sculdascio reclamava la sua preda: gri­darono, s’azzuffarono... alfine il Duca, infuriato, con una pugnalata lo stese morto. Poi fece per prendersi la fanciulla, ma ella si difendeva, gridava... Egli per scherzo, le strappò la veste di dosso e così, nuda co­m’era, fece per abbracciarla... Era bella!... Con un ultimo grido ella si divincolò, lo respinse, poi...
— Poi?... — ruggì il vecchio.
— Si gettò nel pozzo...
Risonò un lamento straziante; il vecchio padre, rialzatosi a stento, andava brancolando verso il rogo. Trovò il pozzo, s’abbrancò alla sponda, s’ab­bandonò inerte sulla pietra.
— Servilia! Servilia!
E la voce paterna dominava il crepitare delle fiamme che s’avvicinavano sempre più minacciosa.
— Servilia! Servilia!
Si sporse nel vuoto.
Allora dall’arca oscura e profonda s’alzò una melodia come d’arpe lontane. Crebbe il suono e si diffuse malinconico e dolce come il lamento della fo­resta, quando ne’ plenilunii la brezza fa vibrare le vette degli alberi e le fronde stormiscono e sussurra­no. Poi s’alzò limpido e gioioso come il canto degli uccelletti che all’alba inneggiano, garruli e canori, al nascere del giorno; trillò alto come l’alterno tril­lare de’ grilli, modulato sul respiro della terra; si perse in un lamento senza pace e surse ancòra, soave e carezzèvole, come richiamo ripetuto nelle lontananze; si spense in un sommesso mormorio d’onde alla sponda, cullando la morte serena del vecchio padre, alfine placato.

* * *

Il dominio del Longobardi ebbe termine, venne­ro i Franchi di Carlomagno. La pia regina Augilberga stabilì in Capronno la sua reggia, sinchè, ri­masta vedova di Lodovico II, volle ritirarsi nel Mo­nastero di Santa Giulia in Brescia; ma prima, della sua terra fece dono al Convento di San Sisto in Piacenza.
­Questo avvenne nell’anno 877 di nostra Salute.
A quei tempi, ancòra salivano i romei il colle per gettare una candida pietra nel pozzo e ascoltare rapiti la divina armonia.
Oggi più non si scorgono che le rovine del “Castellaccio” e una breve radura sassosa chiamata dal­la gente del luogo il “Pozzo della vergine”. E soltanto nei tepidi plenilunii di primavera, qualche ro­signolo, pellegrino d’amore, viene a destare col suo canto gli echi della pineta che nell’ombra vigila i sacri ruderi e il sonno della fanciulla.


(1) Si tagliava la chioma, presso i Longobardi, alle fan­ciulle che andavano a nozze.
(2)  Gasindo — paggio.
(3) Sculdascio — giudice.
(4) Guidrigildo — il prezzo del riscatto.




La leggenda è tratta da:
Costanzo Ranci – LA SPONDA MAGRA ­– Leggende del Lago Maggiore
Libreria Editrice “Ambrosiana”, Milano, 1931.

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