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Cenni storici su Capronno
Gli affreschi della chiesa di Santa Maria Maddalena
Cenni storici sull'oratorio di Sant'Ambrogio
Il restauro dell'oratorio di Sant'Ambrogio


Mostra Restauro e dintorni
Affreschi XV - XVII sec.



Dopo le ricerche storiche di Luciano Besozzi su Capronno, stampate a cura dell’Associazione “Il Castellaccio” nel 1980, nel 1993 Paola Guerriero e Erminio Valerio Pizzinato rinvennero nella sacrestia della chiesa di S. Maria Maddalena una serie di affreschi risalenti al XV secolo e successivi.
Contemporaneamente Paola Guerriero, incaricata da "Tony" Nicoli (gestore, a quel tempo, della "Osteria da Tony"), eseguiva il restauro della Cappella di S. Ambrogio, a cui parteciparono anche alcuni capronnesi per la parte riguardante il tetto e l'esterno Ne scaturì una mostra la cui documentazione è riportata qui di seguito.





L’Associazione "Il Castellaccio”, nel promuovere e realizzare la mostra “Restauro e dintorni”, intende proseguire nell’opera di valorizzazione del millenario paese di Capronno, con la riscoperta della sua storia e di tutto quanto questa può documentare.
Un primo passo è stato fatto con il recupero della Cappella di S. Ambrogio legata da oltre 500 anni, e forse più, alla devozione popolare, parte delta mostra è proprio dedicata al restauro dell’affresco della Cappella.
Un secondo passo, importante ed impegnativo, inizia con questa mostra: all’interno della Sagrestia, che è l’edificio dell’antica chiesa di S. Maria Maddalena, si sono individuati affreschi risalenti al 1500 ed al 1400. E’ intenzione dell’Associazione di riportare alla luce l’intero ciclo pittorico e, nel contempo, riscoprire le vestigia più antiche della Chiesa di S. Maria Maddalena.

Realizzazione della mostra a cura di:
Luciano Besozzi
Valentina Besozzi
Silvano Consoli
Magda Cogliati
Don Ambrogio Cortesi
Fernando Don Santos
Roberto Ghiringhelli
Silvana Giuliani
Paola Guerriero
Erminio Valerio Pizzinato
Paola Viotto
Si ringrazia Don Rino Villa per la disponibilità dimostrata alla realizzazione della mostra.


Cenni storici su Capronno

a cura di Luciano Besozzi


Il Paese



Capronno è sempre stato un paese esclusivamente agricolo, con una presenza importante di “masserie”, cioè di aziende agricole, comprendenti terreni, case e bestiame, concessi in affitto (livello) a famiglie, e con una presenza minore di lavoranti giornalieri.
Un esempio di “masseria” ben documentata, e tale da poter essere presa ad esempio, è quella di Francesco Ghiringhelli, vissuto dal 1662 al 1725; interrogato nel 1722 nel corso delle prime operazioni per il Censimento Austriaco dichiara di abitare a Corte, con la sua famiglia di 18 persone, vivendo con lui anche i figli già sposati; la proprietà è stata data in affitto dai Conti Borromeo ai suoi avi quasi cento anni prima, e comprende la casa, 100 pertiche di terreno aratorio (di cui metà con piante di vite), 40 pertiche di prato, 50 pertiche di pascolo e 100 pertiche di brughiera. Di affitto paga, ogni anno, 3 moggia di mistura, (metà segale e metà miglio), 12 stara di frumento, 5 capponi, 5 pollastri. Il vino ricavato viene diviso a metà, mentre le foglie dei gelsi vanno totalmente al proprietario.
Praticamente identica è la situazione di altre due masserie, documentate nello stesso periodo, e condotte da Giuseppe Signorello e da Carlo Brebbia, anch’essi fittavoli dei Conti Borromeo.
Le tasse sui terreni sono pagate dai proprietari, mentre le tasse personali sono pagate dai contadini.
Le attività artigianali non sono quasi mai documentate, se non incidentalmente, rivestendo sicuramente un aspetto di attività marginali o complementari dell’attività agricola, utili in un piccolo centro: ad esempio, un Carlo Ghiringhelli, vissuto dal 1719 al 1791, in alcuni atti è indicato come “calzolaro”, mentre di solito è qualificato come “massaro a Corte”. Alla fine del 1700, quando tre famiglie di Tollini si stabiliscono a Capronno, provenienti da Brebbia, uno del figli, Giuseppe Antonio Tollini, è qualificato come “tessitore”, ma negli anni successivi appare come contadino.


La popolazione di Capronno

Il primo abitante di cui ci sia giunto il nome è “Halhisus figlio di Pietro de Vico Caurono di legge longobarda”, come viene definito in una pergamena del 966.
Nel secoli successivi, compaiono altri Capronnesi, in alcuni documenti, con la generica denominazione “de Caprono”, e solo nel 1500 i nomi cominciano ad essere accompagnati da un cognome.
Dai dati dei censimenti del 1530 e 1537, Capronno appare come un piccolo villaggio, di soli 5 nuclei famigliari, 4 di massari ed uno di pigionante: Filippo e Andrea de Caprono, Giuseppe de Chelio, Francesco de Ispra e Giovanni de Lissanza. Nel 1545 appaiono i primi cognomi, più soprannomi che altro, Francesco Longo e Bidino del Piano: le famiglie sono sempre 5, per un totale di 11 persone. Negli anni successivi la popolazione sembra aumentare in modo molto rapido, fino ai 19 focolari del 1564, per circa 65 persone: troppo, per un periodo di soli 20 anni, sia pur caratterizzati in tutto il Ducato di Milano da una forte crescita demografica. Forse non sono completi i dati dei primi anni del secolo, a dopo la metà del secolo sono state spostate a Capronno nuove famiglie di massari.
La peste del 1630-31, il saccheggio e la quasi distruzione del paese nel 1636 ad opera dei Francesi, hanno sicuramente portato ad una forte diminuzione della popolazione, immediatamente reintegrata dall’arrivo di nuove famiglie di massari, come appare dai nuovi cognomi apparsi dopo il 1636.
Tipico è il caso dei Ghiringhelli, di cui si ha notizia per la prima volta nel 1638 in un atto di battesimo: a Capronno vi sono tre nuclei famigliari, non sappiamo se imparentati tra loro, forse provenienti dalle valli piemontesi del Lago, anch’esse feudo Borromeo. Queste tre famiglie daranno origine ad uno del ceppi più antichi di Capronno, ancora presente, e che nel 1897 contava 15 famiglie solo a Capronno, 4 ad Angera, ed altre ancora nei paesi vicini.
Altre famiglie, attualmente rappresentate a Capronno, come i Bianchi, i Tollini e i Signorelli, sono presenti da oltre 200 anni; di altre, ad esempio dei Cardana, presenti dal 1650 circa alla seconda metà del secolo scorso, è rimasto il ricordo nel nome di “Corte Cardana”.
La popolazione è rimasta sostanzialmente stabile, meno di 90 persone, per oltre un secolo, fino al primi decenni del 1700, per poi salire lentamente; l’aumento è diventato esplosivo a partire dal 1830, fino ad arrivare ad oltre 350 persone alla fine del secolo scorso, quando solo l’emigrazione potè sanare una situazione diventata insostenibile, anche per la scarsità di case.


La famiglia De Sancto Stefano


La Chiesa di S. Maria Maddalena viene descritta, nella Visita Pastorale del 1569, come quasi in rovina, senza tetto, e nello stesso anno la comunità viene invitata a provvedere a rifare il tetto e il pavimento. Nel 1579 la Chiesa non solo appare restaurata, ma gli uomini di Capronno e di Barzola si impegnano a mantenere un sacerdote stabile, per il quale a Capronno è stata anche costruita una piccola abitazione.
A questo periodo appartengono gli affreschi appena scoperti nella attuale Sacrestia, corrispondente alla antica Chiesa, come chiaramente appare dalla data 1578.
Tutta questa attività appare in contrasto con le possibilità economiche di una comunità di poco più di una decina di famiglie di contadini, e difficilmente spiegabile se non con l’intervento di qualche “mecenate”. Una delle ipotesi che allo stato attuale delle conoscenze può essere fatta, parte dalla descrizione della Visita Pastorale del 1604, in cui viene detto che nel pavimento della Chiesa vi è il sepolcro della famiglia “de Santo Stefano” (e tale sepolcro era ancora visibile nel 1786).
Questo cognome non compare in alcun documento relativo alla popolazione ed era quindi difficilmente riconducibile ad una famiglia abitante a Capronno.
Solo l’esame del contratti di vendita e di affitto del 1500 ha permesso di tracciare una possibile storia di questa famiglia, ricca per gli standard del tempo, e che avrebbe potuto benissimo essere il “mecenate” cercato.
Nel 1519 tre abitanti di Capronno, Battista, e i fratelli Jacobo e Bartolomeo, prendono in enfiteusi “in perpetuum duraturi” beni e immobili da BartoIomeo Merzagora di Angera; la casa, in parte coperta con coppi ed in parte con paglia, è molto grande, ed è situata probabilmente a Corte; I terreni assommano a qualche centinaio di pertiche.
Nel 1607 Desiderio Merzagora, discendente di Bartolomeo, paga a Giovanni Maria, Bartolomeo e Giovanni Andrea de Santo Stefano, discendenti degli affittuari del 1519, la somma di L. 5250 (una cifra enorme, per i tempi), per riprendersi “l’utile dominio” e il “naturale possesso” dei beni e per ricompensarne i miglioramenti apportati nei quasi cento anni; la maggior parte della somma viene però pagata ai creditori dei de Santo Stefano.
Negli anni dal 1590 al 1614, i de Santo Stefano vendono tutti i loro possedimenti, e nel 1623, quando gli abitanti di Capronno giurano fedeltà al nuovo Signore Feudale, il cardinale Federico Borromeo, i de Santo Stefano non compaiono più, e da allora se ne è persa ogni traccia.
Il cognome “de Santo Stefano” compare per la prima volta nel 1571, e successivamente in tutti gli atti notarili relativi a cessioni di terreni, mentre non compare mai in altri atti; nel 1579, quando gli uomini si impegnano a mantenere un sacerdote, un Giovanni Ambrogio (che sappiamo essere un de Santo Stefano, da altri documenti) si impegna personalmente a pagare ogni anno due scudi e mezzo per la celebrazione di una messa ogni sabato.
Nel documenti di quegli anni, accanto al nome, sovente appare anche la particella “Ms”, che veniva di solito data a personaggi importanti o alla piccola nobiltà di campagna.
L’immagine che si può ricavare da tutti i documenti riguardanti la famiglia, di cui si è potuto ricostruire, con buona sicurezza, l’albero genealogico, è quella di gente che è giunta ad un buon grado di agiatezza, ma che non ha poi saputo mantenere tale ricchezza, forse per aver voluto vivere sopra le proprie possibilità; in questo quadro si inserisce bene una possibile munificenza nel confronti della Chiesa, ripagata dal prestigio derivante alla famiglia dalla sepoltura nella Chiesa stessa.

Santa Maria Maddalena di Capronno fino al 1600


La prima notizia della Chiesa si trova, come per quasi tutte le Chiese della Diocesi di Milano, nel “Liber Notitiae Sanctorum”: a Capronno, alla fine del 1200, esiste una Chiesa dedicata a Santa Maria. Per oltre due secoli non si sono trovate, fino ad ora, altre notizie, e solo nella seconda meta del 1500 la Chiesa riemerge dall’oblio: nel 1565, con la prima delle Visite Pastorali volute da Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano, il Prevosto di Angera, Stefano Colonna, visita tutte le Chiese della sua Pieve, tra le quali quella di S. Maria Maddalena di Capronno non fa alcuna descrizione dell’aspetto della Chiesa, ma si limita a scrivere di avere trovato tutto in ordine, che in essa celebra una volta la settimana un prete di Angera, e che la Chiesa stessa non possiede alcun reddito, se non quello che si ricava dalle donazioni della Comunità; sui beni di dote gli abitanti di Capronno sono stati evidentemente reticenti, dato che nel resoconto della Visita successiva, fatta da San Carlo in persona nel 1567, la Chiesa risulta essere dotata di alcune terre, e di altri beni indebitamente trattenuti da persone del luogo.
L’aspetto della Chiesa non e’ descritto, si ha solo un accenno alla struttura; ha un campanile, con una sola campana, e, all’esterno, dalla parte del cimitero, un portico sotto il quale vi e’ un altare; una prima descrizione sommaria si ha solo nella Visita del 1569, fatta da Leonetto Clivonio, delegato di Carlo Borromeo: la Chiesa e’ in cattive condizioni, con il soffitto crollato e il pavimento rotto, e l’altare si trova sotto una volta dipinta; a sinistra dell’altare c’è una sacrestia, nel campanile. All’esterno, vi è un cimitero aperto.
Nel decennio successivo, in tre diverse riprese, vengono date disposizioni: nel 1569 si ordina il restauro del tetto e del pavimento e l’imbiancatura delle pareti (Vicario Foraneo Ambrogio Conturbia, da Besozzo); nel 1571 la sistemazione delle finestre, la posa di steccati in legno, la copertura con pietre delle sepolture e la costruzione di un confessionale; nel 1577 di nuovo l’ordine di imbiancare le pareti e di rifare il soffitto; San Carlo insiste soprattutto per il recupero delle terre di dote delta chiesa, e gli ordini sono perentori per gli abitanti di Capronno.
L’edificio di cui si parla in questo periodo non è quello attualmente visibile, ma la parte oggi utilizzata come sacrestia: la costruzione della nuova Chiesa, nella seconda metà del secolo scorso ha fortunatamente quasi interamente conservata l’antica struttura, inglobandola nel nuovo edificio.
L’antica chiesa non era altro che un oratorio, di dimensioni adatte ad una piccola Comunità come quella di Capronno, che, nel 1500 era costituita da circa 8 famiglie; ha una semplice facciata con un frontespizio, con il campanile sul lato sinistro di chi guarda la facciata stessa; la porta d’accesso era sul lato destro dalla parte del portico e del cimitero, non essendovi sufficiente spazio piano sul davanti, tra l’altro ostruito da un muraglione posto a pochi passi. L’interno e’ povero, ma decoroso, costituito da una prima navata rettangolare, con l’altare posto sotto una volta, in un coro sul fondo della chiesa stessa, più piccolo della navata; da questo si accede ad una piccola sacrestia, posta sul lato meridionale; a ridosso della sacrestia, a piccola casa del Capellano. Le pareti sono in parte dipinte, ed in parte da intonacare e imbiancare; la cappelletta a volta, sotto la quale sta l’altare, è dipinta in fronte con il Crocefisso, la B.V. Maria, S.Giovanni, S.Quirico e Santa Maria Maddalena.
Questa prima precisa descrizione e’ contenuta nel resoconto della Visita Pastorale di Bernardino Taurisio, delegato da Carlo Borromeo, nel 1579; le misure dell’edificio sacro (12 braccia in lunghezza ed in larghezza, ed 8 in altezza) non concordano bene con le dimensioni attualmente rilevabili per la lunghezza, facendo sorgere il dubbio che il campanile fosse posto all’esterno del lato costituente la facciata, e successivamente portato all’interno delta navata, in un successivo allargamento.
Negli anni successivi, viene aperta la porta sulla facciata e sistemato il piazzale antistante: tanto si rileva dalla Visita Pastorale di Federico Borromeo, del 1604, e dai successivi decreti; i mobili e gli arredi sacri sono migliorati, e tutta la chiesa ha un aspetto più decoroso, le pareti sono imbiancate, e “qua e là dipinte”.

Santa Maria Maddalena di Capronno dal 1600


Per quasi tutto il 1600 mancano descrizioni della Chiesa, e vi sono solo ordini, disposizioni e inventari dei beni; a Capronno non risiede un Cappellano stabile, e le messe festive, per molti anni celebrate una domenica a Barzola ed una a Capronno, sono affidate in genere a preti di Angera o frati del Monastero di S. Caterina, sempre di Angera.
La mancanza di una assistenza religiosa continua, soprattutto l’impossibilita dei conforti per i moribondi e l’insegnamento dei rudimenti della Dottrina Cristiana, sono il cruccio degli abitanti di Capronno, che in questo periodo ammontano a circa una quindicina di famiglie (la diminuzione dovuta alla peste del 1630 è compensata dall’arrivo di nuove famiglie negli anni immediatamente successivi): richiedono in continuazione un Cappellano Stabile, (è del 1569 la prima commovente lettera a san Carlo sull’argomento), ma senza alcun risultato per quasi tutto il secolo; la povertà della dotazione non permetteva un reddito stabile, tale da mantenere un Cappellano.
Nel 1683 si ha la Visita Pastorale dell’Arcivescovo Federico Visconti, di cui resta un breve resoconto, con misure molto approssimative dell’edificio (circa 20 cubiti in lunghezza e 12 in larghezza); vengono però poste le basi per l’erezione di una Cappellania stabile, che avviene con istrumento del 15 gennaio 1684: si stabilisce la dotazione della Chiesa, che dà una rendita di circa 400 Lire sufficiente al mantenimento di un sacerdote, mentre la Comunità di Capronno da una parte, ed il Conte Borromeo dall’altra, si impegnano alla manutenzione della Chiesa e della casa di residenza. La Comunità si riserva il diritto di eleggere il Cappellano.
Da questo momento, per quasi cento anni, a Capronno risiede stabilmente un sacerdote: di questo periodo abbiamo molti documenti amministrativi, ma nessuna descrizione della Chiesa, se non quella del 1749, relativa alla visita dell’Arcivescovo Pozzobonelli: l’oratorio, della lunghezza di 18 braccia per 10 di larghezza e altezza, è povero ma dignitoso; viene solo descritto un quadro di santa Maria Maddalena.
Nel 1774 l’ultimo Cappellano titolare cede al Conte Borromeo l’amministrazione e il godimento del beni della Cappellania, in cambio di una pensione vitalizia, di Lire 160 l’anno; iI Borromeo deve provvedere anche ad assicurare la presenza di un sacerdote.
Della Visita Pastorale del 1786, Arcivescovo Filippo Visconti, si ha un resoconto molto particolareggiato dell’Oratorio, che ha un aspetto decisamente migliore rispetto a quello descritto nel 1749. Appesi alle pareti vi sono, da una parte, tre quadri, uno rappresentante il Crocifisso, posto fra S. Ambrogio e Santa Maria Maddalena, gli altri due S. Caterina e la Natività della Vergine; dall’altra parte, due quadri, uno con S. Maria Maddalena e l’altro con S. Pietro. Il coro è posto sotto una volta ricoperta a calce, e ad esso si accede attraverso un arco, sulla cui facciata esterna, a destra, vi è dipinta nel muro un’immagine delta Beata Vergine, e a sinistra una nicchia, con una statua in legno di S. Giuseppe. La chiesa è lunga 13 braccia, larga 8 ed alta 6; sul lato destro vi è la sacrestia, sul lato sinistro la casa di residenza del Cappellano.
Dopo la morte del Cappellano, nel 1786, non si riesce più a trovare un sacerdote che voglia risiedere stabilmente a Capronno, sia per la scomodità che per l’esiguità della rendita, e quindi nel 1789 il Borromeo cede al Consiglio di Governo i Beni del Beneficio di S. Maria Maddalena, mentre la Comunità rinuncia al diritto di eleggere il Cappellano, in cambio di un sacerdote residente, e regolarmente stipendiato; l’istrumento dell’accordo viene fatto il 19 aprile del 1794.
La chiesa è diventata piccola per la Comunità, che ammonta ora ad oltre 150 persone, e vi sono continue richieste di sussidi per allungare l’edificio, aggiungendo un altro coro a quello esistente; ma nulla viene fatto, anche perchè gli sconvolgimenti politici dei successivi anni coinvolgono anche Capronno, con l’arresto e l’imprigionamento del sacerdote per motivi politici. La Cappellania viene retta dal coadiutore di Angera, e successivamente da sacerdoti che, per un motivo o per l’altro, restano pochissimo tempo a Capronno.
Solamente net 1828 si riesce ad ingrandire la chiesa, con la costruzione del nuovo coro e l’allargamento della sacrestia: i lavori comportano l’abbattimento del muro di fondo del vecchio coro, quello con la volta, un tempo dipinta.
I lavori non dovettero essere eseguiti a regola d’arte, poiché una perizia del 1856 rileva situazioni pericolose per la stabilità; intanto l’aumento della popolazione (oltre 200 persone all’epoca della perizia e che arriverà a quasi 400 persone a fine secolo) rende sempre meno utilizzabile la chiesa; il progetto del nuovo edificio e’ del 1863 e circa 20 anni dopo la nuova chiesa, che come si e’ detto, ha fortunatamente conservato come sacrestia la parte principale del vecchio edificio, viene aperta al culto.
Il distacco dell’affresco raffigurante al Madonna che allatta il Bambino è attribuibile, secondo la memoria degli abitanti, agli anni trenta di questo secolo.

La Chiesa di Capronno: i Cappellani


Nei secoli XVI e XVII Capronno non ha un Capellano fisso, si alternano sacerdoti “mercenari”, che ricevono cioè una mercede, in natura o in denaro, per ogni messa celebrata; sovente sono frati, provenienti dai Serviti di Angera, o da Arona.
Dai documenti Si ricavano alcuni nomi:
1567 Ettore Besozzi Canonico di Angera
1571 Zaccheo Colonna Canonico di Angera
1588 Frate Ambrogio dei Carmelitani
1620 Hieronimo Buzzo Canonico di Angera
1625 Frati vari Padri Serviti di Angera

Con l’erezione della Cappellania di Capronno, nel 1684, si hanno Cappellani stabili:
1694-1717 Carlo Besozzi dimissionario
1717-1728 Carlo Antonio Magri di Arona
1728-1736 Melchiorre Curione di Arona
1736-1741 Carlo Egidio Berna di Milano
1741 –1763 Giovanni Maria Mendozza di Angera
1763-1774 Giuseppe Mendozza di Angera
1774-1782 Francesco Brovelli
1783-1786 Teodosio Badia

Dal 1789, data dell’erezione della Coadiutoria di Capronno, i sacerdoti stabili sono:
1791-1792 Ignazio Ravoli dimissionario
1792-1801 Antonio Niccolini di Genova, rimosso e incarcerato perchè contrario al nuovo regime politico
1801 Francesco Croci
1817-1818 Francesco Pozzi di Gemonio
1819-1821 Giacinto Carozzi dimissionario
1821-1823 Giuseppe Maria Gariboldi
1824 Antonio Macchi
1890 Carlo Ferrario
Piero Forni
1901-1902 Leopoldo Campiglio di Comabbio
1903-1943 Stefano De Servi di Rescaldina
1946-1973 Enrico Saporiti

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Affreschi della chiesa di Santa Maria Maddalena a Capronno


A cura della Professoressa Paola Viotto


Gli affreschi attualmente visibili appartengono a due gruppi distinti.
Il primo é costituito da quanto sta venendo alla luce sulla parete settentrionale della navata originale. E’ già riconoscibile una serie di riquadri, incorniciati da motivi ornamentali. Il primo a destra contiene una figura già in gran parte leggibile, ed è fornito in alto di una scritta da cui si ricava il nome del Santo raffigurato (Bartolomeo) e la data 1578. Questa data è perfettamente coerente con le caratteristiche stilistiche della parte di figura già scoperta e con la tipologia della cornice decorativa.
E’ da notare che la Visita pastorale del 1579, pur non facendo alcuna menzione di questi affreschi, registra un generale miglioramento della situazione dell’edificio rispetto alle condizioni rilevate net 1569. Si può quindi pensare che questo intervento decorativo si inquadri nell’ambito di una serie più ampia di lavori, comprendenti tra l’altro il rifacimento del pavimento e del soffitto.
Il secondo gruppo di affreschi interessava invece le pareti e la volta dell’abside. Attualmente sono visibili soltanto alcune parti solo al di qua e al di là della parete divisoria, ascrivibili comunque con notevole sicurezza ad una stessa mano. Quanta già emerso, in particolare il viso di Santo a destra e la figura del leone nella volta permettono di ipotizzare l’esistenza di un complesso decorativo unitario. Questo doveva comprendere in alto l’immagine del Cristo (del Padre Eterno) nella mandorla, circondato dai simboli degli Evangelisti, e in basso una serie di figure di Santi, con l’eventuale presenza di una Crocifissione sul muro di fondo.
Tale ipotesi è confortata e completata dalle risultanze delle visite pastorali. In particolare si veda nel 1579 l’indicazione “cappella a volta, dipinta in fronte con le pitture del Crocefisso, della B.V. Maria, di San Giovanni, di S. Maria Maddalena e di S. Quirico”. Questo muro di fondo, in parte abbattuto nel 1828 per consentire un ampliamento dell’edificio, aveva già subito modifiche prima della fine del Settecento. La visita del 1786, che risulta particolarmente dettagliata, fa infatti presumere che vi fosse già stata ricavata una nicchia per collocarvi l’immagine della Vergine. La stessa visita menziona, sulla volta, “l’effigie dell’Eterno...?... con un cartello che porta scritto “Ego sum Lux mundi”.
Tutti questi dati fanno pensare ad un gruppo di affreschi riconducibile ad un programma iconografico comunissimo in tutto il territorio dell’Alto Varesotto fino al Cinquecento avanzato. Si possono citare a tal proposito innumerevoli esempi, sia in chiese di una certa importanza sia in oratori di campagna, dal San Pietro di Brebbia al San Defendente di Ceresolo.
Quanto finora emerso non permette ancora di stabilire dei precisi paralleli stilistici con altre opere presenti nella zona circostante. Pare comunque possibile avanzare una datazione intorno alla metà del Quattrocento.
E un discorso a parte merita l’affresco strappato della Madonna con Bambino ora appeso nella sagrestia. Pare che esso si trovasse in origine sul lato destro dell’arco trionfale, ciò che concorda con quanto affermato nella visita del 1786: “Alla destra della facciata dell’arco si vede, dipinta nel muro, l’effigie della Beata Vergine”. Durante lo strappo la pittura ha subito diversi danni e oggi reca segni evidenti di ritocchi, alcuni del quali, in specie al volto del Bambino, forse già precedenti all’operazione. Tuttavia sono presenti alcune analogie (nella tipologia del viso e in particolare della bocca della Vergine, nel modo di trattare i bordi decorativi...) con gli affreschi dell’abside.

Maggio 1993

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Cenni storici sull'oratorio di Sant'Ambrogio di Capronno

A cura di Luciano Besozzi


S. Ambrogio è pochissimo documentato nei secoli, e completamente ignorato nei resoconti delle Visite Pastorali, di solito malta precise e meticolose quando si tratta di Chiese ed Oratori, anche se in rovina; sembra quasi che S. Ambrogio non sia stato un luogo di culto ufficiale, anche se nel 1500 appare dotata di terreni, che assicurano una rendita. Sembra non esistere, ma il suo nome compare talvolta accostato a quello della chiesa principale, che diventa “di S. Maria Maddalena e S. Ambrogio”; nel resoconto dei danni del saccheggio del 1636 la Chiesa di Capronno addirittura è detta “di S. Ambrogio”.
La prima notizia è del 1571: il Prevosto di Angera Francesco Ranzio, in un elenco delle Cappelle della Pieve di Angera, ricorda “la Cappella di S. Ambrogio, nel luogo di Capronno, dotata di un campo di 8 pertiche nel territorio di Capronno. In essa non si celebra”. In quegli anni, dopo le visite Pastorali di S. Carlo, e dei suoi delegati, vengono recuperate tutte le terre di proprietà di S. Maria Maddalena, indebitamente tenute da alcuni abitanti di Capronno: probabilmente, anche le terre di dotazione di S. Ambrogio passarono alla Chiesa maggiore.
Nel 1588, il Prevosto Crespi, scrivendo di Capronno, riferisce che “nei suoi confini, vi è l’Oratorio di S. Ambrogio campestre”.
A sostegno della tesi di un luogo di culto non ufficiale, c’è un documento, che si può far risalire a circa il 1640; l’estensore (probabilmente il Prevosto di Angera), dopo aver descritto la Chiesa di S. Maria Maddalena, riferisce che “non lungi da essa vi è una celula pia, comunemente detta il Giesolo. Qui si radunano frequentemente gli abitanti del luogo e raccolgono una certa quantità di elemosine ed altre cose donate, con le quali si provvede alle necessità della celula; con quanto avanza di queste elemosine, in accordo con il Prevosto, si provvede alle sistemazione e ornamento dell’Oratorio di Capronno”.
Nel 1774, fra le carte scritte probabilmente in preparazione di una visita pastorale, si trova un appunto su S. Ambrogio, mentre nei lunghi e minuziosi istrumenti di erezione della Cappellania di S. Maria Maddalena del 1684, e di quella successiva del 1789, non si trova alcun accenno ad esso.
Nell’istrumento del 1806 riguardante la vendita di alcuni beni appartenenti alla Cappellania di S. Maria Maddalena, si descrive un terreno “nel quale vi è una piccola cappelletta denominata la Cappelletta di S. Ambrogio”.
Nella seconda metà del 1800, nelle vicinanze di S. Ambrogio, vennero trovate alcune decine di tombe longobarde: il materiale trovato venne prelevato dai Borromeo e di essa si è persa ogni traccia.
Infine anche nel 1896, in occasione della Visita Pastorale del Cardinal Ferrari, di S. Ambrogio non viene fatta alcuna menzione.



Cappella di S. Ambrogio: esterno

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Il restauro di Sant'Ambrogio

A cura di Paola Guerriero


Il dipinto è stato eseguito in due giornate: il primo giorno il pittore ha dipinto il Cristo crocifisso, buona parte del cielo e dello sfondo e S. Ambrogio; il secondo giorno si è dedicato alla raffigurazione della Madonna in trono con il Bambino.
La giornata è la superficie d’intonaco applicata in una sola volta, e corrisponde al lavoro che il pittore può compiere prima dell’asciugatura dell’intonaco, elemento importante per ottenere un buon fresco; nei margini veniva terminata a scarpata, in modo che risultasse più agevole il collegamento con l’intonaco delle giornate seguenti.
Il pittore, e il suo aiutante, ha cominciato con lo stendere uno strato di arriccio sul muro della cappellina; il muro, a supporto, è costituito da pietre di dimensioni variabili non squadrate e da pezzi più piccoli di cotto uniti da una malta composta da sabbia grossa non lavata e calce; l’arriccio e’ una malta costituita da sabbia non vagliata e calce, che viene stesa sul supporto per preparare il fondo su cui stendere l’intonachino.
In questo caso l’arriccio non è stato steso uniformemente sul supporto, ma è stato seguito l’andamento irregolare delle pietre, andamento che si riscontra anche sull’intonachino.
L’intonachino è stato steso in uno strato molta sottile, liscio, ed è costituito da sabbia fine, di granulometria costante, e da calce.
Una volta steso l’intonachino, l’artista vi ha tracciato le incisioni, cioè le linee principali del disegno con un’oggetto appuntito, linee che sono ancora visibili sul dipinto, per avere dei riferimenti durante l’esecuzione dell’affresco.
Si può notare che nella prima giornata sono presenti poche incisioni a scandire lo spazio in cui rappresentare il Cristo e S. Ambrogio, mentre nella seconda giornata sono molto più numerose e rilevano con molta precisione il trono e il panneggio della veste e del manto della Madonna.
Il dipinto è stato eseguito a buon fresco, utilizzando tutti i colori consigliati dalla tradizione per dipingere su muro a fresco: sono stati usati colon minerali: terre rosse, gialle, verdi, utilizzati puri o miscelati tra loro.
Per quello che riguarda una possibile datazione del dipinto ci si può basare sulla sua tecnica esecutiva: l’intonaco lisciato segue l’andamento del supporto, costituito da conci irregolari; è stato eseguito a buon fresco, cioè sull’intonaco ancora umido; è stato dipinto dopo aver segnato le linee costitutive del disegno con un oggetto appuntito, quindi si presuppone la presenza di un cartone con il disegno preparatorio, che è stato appoggiato sull’intonaco appena steso, che ha mantenuto, asciugandosi, le incisioni; tutti questi particolari riconducono a tecniche in uso nei secoli XV -XVII.
Schema della tecnica esecutiva del dipinto



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L’affresco aveva un aspetto abbastanza disordinato: numerose cadute della pellicola pittorica e dell’intonachino, scritte, probabili ex voto, schizzi di stabilitura, stuccature e ridipinture eseguite in precedenti interventi, le alterazioni sulla figura del Cristo provocati da un piccolo incendio, alteravano in modo molto evidente la leggibilità del dipinto.
L’intonaco si presentava in condizione discreta: i distacchi dal supporto e dall’arriccio erano presenti lungo la crepa che attraversa il braccio destro del Cristo e localizzati vicino alle grosse mancanze, come rilevabile dal grafico.
Numerose erano le malte non originali sovrammesse in precedenti restauri; nella zona bassa a destra sopra Io strato di pellicola pittorica originale si sono potuti rilevare: uno scialbo a calce, una ridipintura a tempera di colore arancio, una malta a cemento, utilizzata a tamponare la crepa presente e due successive stesure di malta a calce, riconducibili a due diversi interventi.
Nella parte centrale in basso si sono riscontrati due strati di malta a calce e sabbia.
Un altro tamponamento molto esteso era presente nella parte sinistra: eseguito a calce e sabbia, dipinto ad affresco e in seguito coperto da uno scialbo di calce, riprendeva buona parte del cielo, parte del braccio sinistro della Madonna, e il manto.
Le lacune dell’intonachino erano localizzate in maggior parte nella zona dove è dipinta la Madonna, dovute ad infiltrazioni di acque meteoriche, che hanno provocato la perdita di parti dipinte abbastanza estese.
Erano presenti vaste ridipinture; in particolare il cielo ha subito due interventi in cui sono stati stesi due strati distinti a tempera di colore azzurro, con l’intenzione di ravvivare il dipinto.
La figura del Cristo appariva completamente alterata da una ridipintura a tempera, malta friabile e, su buona parte del corpo, Si poteva notare la presenza di un affumicamento, provocato dalla bruciatura parziale della piccola alzata lignea.
In un intervento precedente, sono state ricollocate in sede parti del viso della Madonna e del Bambino, probabilmente cadute, evitando così la perdita.



Schema dello stato di conservazione

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Come prima operazione si è proceduto con l’eliminazione delle malte a tamponamento presenti nella zona bassa del dipinto: agendo con cautela si sono eliminati ben tre interventi successivi (due stesure di malte a calce e sabbia e uno strato di scialbo a calce), riuscendo a recuperare buona parte dell’affresco originale nella parte bassa a destra, dove è riapparsa la cornice originale del dipinto, parte del cielo e del terreno.
Abbiamo poi proseguito togliendo la malta non originale presente nella zona sinistra della parete, che risultava deturpante per l’opera, riscoprendo una feritoia con strombatura versa l’interno, che è stata lasciata a vista, dopo aver tolto il riempimento eseguito in passato.
La spiegazione più probabile della presenza di questo elemento è quella di una trasformazione d’uso della struttura dell’attuale cappella; a pochi metri, su un colle, sono presenti i resti del Castellaccio, di epoca longobarda, e l’originaria pianta quadrata della cappella, visibile anche nella mappa del Catasto teresiano del 1723, fanno presupporre un suo utilizzo dapprima come torretta d’avvistamento, e poi, persa la funzione militare, la sua trasformazione in edificio religioso, con l’esecuzione dell’affresco e il successivo ampliamento della struttura con la costruzione del portico antistante nel XVIII secolo, come rilevabile dalle mappe.
Un’altra feritoia. simmetrica e in linea con la prima, è stata localizzata a destra, al di sotto dell’affresco originale, come segnalato dalla foto.
La pulitura è stata eseguita con AB57 a tampone, per togliere Io sporco superficiale e le ridipinture meno resistenti, mentre nelle zone coperte da malte aggiunte è stata condotta ad impacco in modo da ammorbidire gli strati sovrammessi e rendere meno traumatica la rimozione degli strati estranei all’originale; in questo modo, si è riusciti a recuperare buona parte dell’originale, riscoprendo la cornice del dipinto.
Successivamente è stata eseguito il discialbo a secco, a bisturi delle ridipinture a tempera eseguite durante interventi di restauro precedenti, riuscendo a recuperare la cromia originale del dipinto: il cielo presentava due successive stesure a tempera e si è riscoperta, in alto, la stessa cornice recuperata in basso.
Dopo aver proceduto con i consolidamenti dei distacchi tra supporto e arriccio e tra arriccio e intonachino, presenti soprattutto nelle zone interessate da infiltrazioni d’acqua, si è passati alla stesura delle “malte neutre”, intervento che permette di avere una lettura delle vicissitudini del dipinto, e che nello stessa tempo evita la ricostruzione di zone estese, con il rischio di falsare l’originalità dell’opera.
La reintegrazione delle stuccature è stata eseguita con il metodo della selezione cromatica, in linea con le attuali tendenze del restauro, che si basano sulla riconoscibilità e sulla reversibilità degli interventi.


Mappatura deli interventi eseguiti




Cappella di S. Ambrogio: affresco restaurato

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Indagine sul pigmento verde del manto della Madonna


L’immagine delta Vergine, nella cappella di S. Ambrogio è raffigurata con un mantello verde; dal momento che iconograficamente la Madonna viene rappresentata con una veste rossa e il manto blu o azzurro le ipotesi potevano essere due:
- l’artista ha usato questo colore per una scelta personale stilistica, superando il rigido schema del manto blu,
- l’artista aveva in origine utilizzato un colore azzurro, che nel tempo, a causa di fattori quali l’umidità e la luce, si è trasformato chimicamente dando origine a malachite di colore verde.


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Con indagini visive è impossibile stabilire se l’una o l’altra ipotesi sia valida; e in questo caso ci è stato di notevole aiuto il ricorrere a delle indagini scientifiche molto sofisticate che hanno permesso di sciogliere ogni dubbio.
Comparando le composizioni chimiche dei pigmenti, con i risultati ottenuti dall’analisi al microscopio a scansione elettronica, si è potuto stabilire che il pigmento usato è la terra verde e quindi che l’artista ha operato una scelta espressiva personale nella rappresentazione dell’immagine di Maria.
Nell’analisi qualitativa e quantitativa degli elementi presenti net campione analizzato si può notare la presenza abbastanza elevata in percentuale di silice (Si), alluminio (Al), calcio (Ca) e ferro (Fe), componenti caratterizzanti il pigmento Terra verde.

TERRA VERDE
o terra di Verona, Creta viridis, Appianum, Verde tirolese.
Composizione chimica:
Pigmento inorganico naturale, composto da due minerali: la glauconite e la celadonite.
Silicati di ferro, magnesio, alluminio e potassio (argilla magnesiaca, colorata da silicato terroso).
Peso specifico 2,5- 2,7
Componenti:
chiara scura
Acqua igroscopica 2,78 1,79
Acqua combinata 4,00 3
Ossido di ferro (fe203) 24,80 20,70
Ossido di magnesia e sodio 11,84 12,37
Ossido di calcio e alluminio 6,23 7,25
Ossido di manganese tracce
Silicati insolubili 48,20 51,25


Storia del pigmento:
E’ stato usato fin dall’antichità, particolarmente dai pittori italiani. Ne parla Vitruvio nella sua citazione dei colori nativi; dopo aver parlato dei rossi e dei bianchi, dice che: “la creta verde nasce anch’essa in parecchi luoghi, ma la migliore è quella di Smirne”. Dai Greci era chiamata "deodotios", poichè Teodoto era il nome dell’uomo sul cui fondo fu rinvenuto per la prima volta questo genere di creta.
Nel Rinascimento italiano fu molto usato, in particolare nella preparazione degli incarnati.
Nel Duecento, sostituì il bolo nella preparazione dei fondi argentati.
E’ il verde raccomandato per dipingere ad affresco nei testi antichi, particolarmente da Cennino Cennini, da Dioniso di Fourna, da Pozzo nella "Breve istruzione per dipingere a fresco" e da Vitruvio.
Viene usata anche oggi, nonostante sia difficile da reperire perchè è imitata con miscele di Blu di Prussia e gialli di cromo (verde di croma).

Metodi di analisi
Proprietà generali del pigmento:
E’ stabile alla luce e agli agenti chimici; calcinato assume una colorazione rosso-bruna (terra verde bruciata), di aspetto terroso, la cui tonalità varia da un verde chiaro allo scuro, fino allo scurissimo.
E’ un verde di tinta spenta con un medio potere coprente.
Proprietà ottiche:
All’esame microscopico, in luce riflessa, si presenta in forma di particelle rotondeggianti, abbastanza grosse e a volte rugose, la cui composizione non è omogenea. Si notano infatti cristalli trasparenti di quarzo, silicati ed ossidi di ferro, di vario colore:
verde scuro, azzurro, giallo, rosso. I grani sono birifrangenti a Nicol incrociati, con colori di interferenza non molto evidenti.
Compatibilità con altri pigmenti:
Si può miscelare con tutti i bianchi e con tutti i colori fissi.
Prove microchimiche
All’analisi chimica risulta principalmente costituita da ferro, silice e silicati; da notare anche la presenza di alluminio, magnesia ed impurezze vane.

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Il Microscopio Elettronico a Scansione (S.E.M.)
Questo tipo di microscopio è basato sull’utilizzazione di onde elettroniche al posto di onde luminose e quindi sull’impiego di un’ottica elettromagnetica.Il S.E.M è in grado di fornire, a differenza degli altri tipi di microscopi, immagini molto realistiche di un oggetto caratterizzate da un elevatissimo grado di definizione e che richiamano la sua forma tridimensionale; in definitiva immagini assai più simili a quelle a noi famigliari, come si può vedere dalle foto del campione analizzato.
L’immagine viene formata non dagli elettroni che attraversano il campione, ma da elettroni secondari emessi punto per punto dalla superficie dell’oggetto che viene colpito da un sottilissimo fascio di elettroni.
L’immagine si forma da una sequenza temporale di effetti, in maniera simile a quanto accade nella televisione; un fascio focalizzato sottilissimo di elettroni esplora sistematicamente a bassa velocità il campione o, come si dice, ne esegue la scansione.
Gli elettroni secondari emessi in sequenza temporale da ogni punto esplorato del campione, vengono raccolti da un adatto collettore.
Il segnale viene amplificato e inviato ad un tubo a raggi catodici mediante il quale viene restituita su uno schermo l’immagine ingrandita dell’oggetto che può essere registrata fotograficamente.
E’ necessario che la superficie del campione sia tutta a potenziale elettrico costante, cioè elettricamente conduttiva.
Se il campione contiene materiali che non conducono l’elettricità, bisogna renderne conduttiva la superficie ricoprendola di un sottilissimo film di materiale conduttore (di solito oro o carbonio fatto vaporizzare e depositare in film sottile sotto vuoto).
La superficie del campione rimanda elettroni, che vanno a formare l’immagine, e raggi X che rendono possibile l’analisi elementare qualitativa e quantitativa su una piccola area di pochi microns quadrati di un campione (vedi grafici).
Analizzando con uno spettrometro le lunghezze d’onda dei raggi X emessi, è possibile risalire all’identità dell’elemento bombardato e alla quantità presente.

Indagini stratigrafiche


Ogni restauro architettonico che rispetti il monumento nella sua materia e nella sua storicità, deve basarsi su indagini preliminari sistematiche e complete, perché, solo attraverso la conoscenza approfondita e metodologicamente corretta del monumento con le sue caratteristiche estetiche, storiche, costruttive e funzionali, è possibile sviluppare un progetto appropriato di conservazione, restauro e recupero.
Nelle indagini preliminari un ruolo importante spetta alla cosiddetta indagine stratigrafica, che risulta collegata, nell’ambito più vasto dell’indagine conoscitiva, ad un rilievo “archeologico” del monumento architettonico: dalla “pelle” del monumento, dai vari strati di tinteggiature e pitture decorative, l’analisi si estende ai supporti, a intonaci, malte di posa, murature ecc. e contribuisce cosi a comprendere non solo l’aspetto decorativo, ma anche la storia costruttiva di un monumento in tutti i suoi elementi strutturali.
La metodologia dell’indagine stratigrafica si basa sull’analisi morfologica degli strati ritrovati; l’interpretazione delle stratigrafie sarà poi completata e sostenuta dalle osservazioni tratte dal rilievo, da fonti d’archivio e dalle analisi chimiche dei materiali ritrovati.
La tecnica d’indagine si attua dapprima con un’analisi visiva: approfittando dei dislivelli presenti su una parete e di zone scoperte già presenti (zone lacunose o crepe) si possono riscontrare i vari strati presenti, non solo delle tinteggiature, degli intonaci e delle decorazioni, ma anche trarre osservazioni sui materiali e le tecniche usate e sullo stato di conservazione.
Partendo da queste conoscenze si può passare alla seconda fase dell’indagine, attuando dei piccoli campioni di scopritura a “scaletta”, dei vari strati esistenti e arrivando fino ai supporti.
Attraverso queste indagini è possibile individuare elementi non visibili, come affreschi coperti da strati successivi, porte e finestre tamponate durante interventi più recenti, fratture e tamponamenti nei supporti che indicano modifiche strutturali e simili.
Considerando individualmente una singola stratigrafia, non risulterà comprensibile o potrà sembrare di scarso interesse storico ed artistico; paragonando invece gIi strati ritrovati nei diversi sondaggi, confrontando materiali e tecniche adoperati e cercando uno strato conduttore presente nei diversi campioni, si potranno trarre conclusioni sull’aspetto di un’architettura, dei suoi elementi strutturali e del suoi rivestimenti, ricostituendo così diacronicamente i cambiamenti intercorsi durante i secoli.

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Dalla “Carta 1987 della conservazione e del restauro degli oqgetti d’arte e di cultura”


...
Conservazione: I’insieme degli atti di prevenzione e salvaguardia rivolti ad assicurare una durata tendenzialmente illimitata alla configurazione materiale delI’oggetto considerato.
Prevenzione: I’insieme degli atti di conservazione, motivati da conoscenze predittive al più Iungo termine possibile, suII’oggetto considerato e sulle condizioni del suo contesto ambientale.
Salvaguardia: qualsiasi provvedimento conservativo e preventivo che non implichi interventi diretti sulI’oggetto considerato.
Restauro: qualsiasi intervento che, nel rispetto del principi della conservazione e sulla base di previe indagini conoscitive di ogni tipo, sia rivolto a restituire all’oggetto, nei limiti del possibile, la relativa leggibilità e, ove occorra, l’uso.
Manutenzione: l’insieme degli atti programmaticamente ricorrenti rivolti a mantenere le cose di interesse culturale in condizioni ottimali di integrità e funzionalità, specialmente dopo che abbiano subito interventi eccezionali di conservazione e/o restauro.
Conservazione e restauro possono non essere uniti e simultanei, ma sono complementari e in ogni caso un programma di restauro non può prescindere da un adeguato programma di salvaguardia, di manutenzione e prevenzione.
Istruzioni per l’esecuzione di interventi di conservazione e restauro su opere a carattere plastico, pittorico, grafico e d’arte applicata.
La prima operazione da compiere, in ogni intervento su qualsiasi opera d’arte o cimelio storico, è un’accurata ricognizione dello stato di conservazione dell’oggetto di per sè e delle condizioni ambientali in cui è stato ed è custodito.
In tale ricognizione rientra l’accertamento e, per quanto possibile, cui l’oggetto è stato ed è conservato. A tale riguardo è molto importante la documentazione storica dei dati forniti dagli strumenti sulle escursioni termiche, bariche, idrometriche e anche su quelle fototropiche dell’ambiente in cui è custodito, nonchè su quelle inerenti l’intero edificio.
...
Per quanto riguarda le condizioni di conservazione intrinseche dell’oggetto è fondamentale l’accertamento del modi dell’esecuzione tecnica e del materiali adoperati, distinguendo le parti originarie da quelle spurie o aggiunte e determinandone approssimativamente le rispettive datazioni...
Tale accertamento, che in prima istanza si intende comunque autoptico, dovrà, nei limiti del possibile,essere corroborato da analisi ed esami a carattere fisico, chimico e numerico, scelti con assoluta priorità tra quelli non distruttivi
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Per quanto riguarda i dipinti murali o su pietra, terracotta o altro supporto e che siano comunque in condizioni di amovibilità, occorrerà assicurarsi delle condizioni del supporto in relazione all’umidità, definire se si tratti di umidità di infiltrazione oppure formatasi per condensazione o per capillarità, eseguire del prelievi della malta e del conglomerato del muro e misurarne il grado di umidità. Qualora si notino o si suppongano attacchi di biodeteriogeni, anche su questi ultimi andranno esperite specifiche analisi.
Previdenze da tenere presenti nell’esecuzione di interventi di conservazione e restauro a pitture murali e mosaici

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Prima di iniziare qualsiasi intervento, sarà necessario determinare nel modo più preciso la tecnica di esecuzione e i materiali usati. Contemporaneamente occorre rilevare gli aspetti del degrado e individuarne le cause. Prima di ogni operazione conservativa sui dipinti è necessario in primo luogo risanare l’ambiente ed eliminarne ogni causa di aggressione.
Le prime operazioni riguardano il ristabilimento della coesione e dell’adesione dei vari strati. I materiali da usare per tali operazioni dovranno essere scelti e vagliati da una serie di prove di laboratorio, comprensive di invecchiamenti naturali di almeno quindici anni, che ne garantiscano l’asportabilità e l’inalterabilità nel tempo a livello strutturale ed ottico.
La pulitura, per mezzi e metodologie, può attenersi alla prassi seguita per i dipinti mobili salvo che per la rimozione delle incrostazioni saline poco solubili, per Ie quali si rimanda alla letteratura esistente.
I dipinti murali sono parte integrante dell’architettura, quindi la loro trasposizione sarà giustificata, anche se sempre traumatica, solamente nei casi di edifici o supporti che debbano essere distrutti o rimossi o di catastrofi (terremoti, incendi, alluvioni, ecc.) ed eccezionalmente, palinsesti.
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